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venerdì 26 ottobre 2012

Quando nasce un femminicidio?



Quando nasce un femminicidio?

Femminicidio


A prescindere dal fatto che non amo il termine femminicidio, creato tra l’altro  per far capire l’ottica distorta che dà vita a certi crimini, c’è da chiedersi: QUANDO nasce esattamente un femminicidio?
Cioè, la riduzione sia fisica che emotiva delle donne a degli oggetti, perché di questo si tratta, portata alle sue estreme conseguenze, quando mette le radici prima di arrivare ad un gesto così eclatante ed irreparabile? E quante volte invece rimane latente, possibile, in bilico su equilibri familiari che si poggiano sul non rispetto della dignità femminile?
Un femminicidio, a mio parere, è un qualcosa di abbrutente e assolutamente ingiusto che si respira nell’aria, che permea pareti, stanze, persone e situazioni e che si nutre anche di piccole cose.
Nasce, per esempio, quando un ragazzino utilizza la sua superiorità fisica su una bambina con dei piccoli gesti di prevaricazione e nessuno lo riprende, o quando un marito e ancora peggio un padre minimizza gli sforzi della propria compagna, si vanta del fatto di essere servito e riverito, e deride lo stress di mogli e madri divise in modo disumano tra lavoro, casa e figli, in una corsa disperata di cui non avranno mai ragione per quanto si potranno affannare.
Nasce in figli maschi che vivono la propria casa come una ‘tana’ dove madri e sorelle lavoratrici o studentesse, appena si chiudono la porta alle spalle, perdono la propria parità giuridica e sociale e si trasformano in delle serve. Nasce in modelli televisivi dove i personaggi vincenti e agognati sono delle donne ridotte a caricature di bambole gonfiabili, in cui l’emancipazione femminile passa attraverso la vendita e l’ostentazione del proprio corpo, in maniera maniacale, ossessiva, lasciva. Un femminicidio nasce anche in cose all'apparenza innocenti, come le pubblicità dei detersivi per esempio, in cui le uniche ad apparire intente alle mansioni domestiche sono delle ‘femmine’ per l’appunto, anche se subito dopo il bucato devono correre a lavorare tanto e quanto i loro compagni buttati felici sui divani, o negli spot di merendine e cereali, dove mamme felici servono famiglie felici riunite intorno ad un tavolo, come se ancora, in ogni famiglia, esistesse una casalinga dedita al solo ruolo di angelo del focolare.
Un femminicidio nasce quando un marito maltratta la propria compagna nel silenzio correo di parenti, amici e conoscenti, o quando un padre non rispetta la propria moglie davanti agli occhi avidi di gesti e modelli da ripetere dei propri figli.
Il femminicidio ha delle complici, e sono mamme iperprotettive verso i propri pupilli maschi, che non avendo ricevuto attenzioni e amore da partner assenti e maschilisti, hanno riversato queste necessità su figli amati troppo morbosamente, in una competizione insana e cattiva con le loro future compagne, e ancora donne per cui scarpe, vestiti, trucchi e gossip rivestono un ruolo imprescindibile e difficilmente sostituibile da quotidiani, libri e attività sociali, per cui la guida  è spesso un tabù…in una corsa autolesionista ad incarnare cliché abusati e poco veritieri.
Un femminicidio è l’apice e la parte più tangibile di un’ingiustizia sociale che la legge ha cancellato diversi anni or sono, ma che la mentalità comune perpetua, e di cui l’uomo, in ultima analisi, è una delle vittime.
Perché il femminicidio nasce da consuetudini di possesso e riduzione all’inferiorità quotidiana di donne che già nel lontano 1975, e io all’epoca avevo solo un anno (!), furono dalla legge equiparate in tutto e per tutto agli uomini, anche all’interno dell’istituzione matrimoniale.
È infatti con la Legge 19 maggio 1975 n°151 che si stravolse la struttura della famiglia, una legge basata sull’art. 143 del Codice Civile, nel quale si afferma in modo perentorio che “con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri”. Tutto ciò comportando obblighi di fedeltà, assistenza morale e materiale e collaborazione assolutamente paritari, senza distinzioni tra moglie e marito.
Ed è la stessa legge ad estendere il mantenimento della famiglia ad entrambi i coniugi, certo in relazione alle loro sostanze ed alle loro capacità di lavoro professionale e casalingo. Il lavoro professionale e casalingo, inoltre, così come le necessità dei figli, nell’ottica del legislatore acquistano la medesima dignità e i due coniugi sono tenuti, pur nella libertà di scelta, ad attendervi entrambi in egual modo.
Una legge, all’attualità, che non credo sia stata assorbita e recepita dalla mentalità comune e dal comune senso della ragione.
E come diceva qualcuno, si sa, il sonno della ragione genera mostri...
Un  femminicidio in sostanza credo che nasca da lontano, da molto lontano rispetto al momento deflagrante della violenza, e ha così tanto complici che la mano che lo compie è solo l'ultimo anello di una vasta catena. E in tutto questo sono convinta che proprio le donne, che gli uomini 'li fanno', li crescono e li educano, dovrebbero sforzarsi di prevenire una simile aberrazione insegnando a se stesse, e poi anche agli altri, il proprio valore e il rispetto che questo pretende. La rivoluzione insomma si fa da mamme, da figlie e da compagne, e in ultima analisi, se questo proprio non bastasse, anche in piazza.
Femminicidio

 


 

domenica 7 ottobre 2012

Ego cannibale

EGO CANNIBALE


La costruzione di un racconto: 10.000 battute compresi gli spazi e un concorso (Donne che fanno testo - Il Messaggero).

Ego Cannibale

di 

Nuela Celli



Si svegliò alle sei di mattina sentendo che le mancava l’aria e il pensiero scivolò sempre lì, ossessivo. Di colpo smise di lottare contro se stessa, ormai stava perdendo l’autocontrollo ed era la prima volta che le accadeva.
Ripensò alla sua pancia pronunciata, pingue, dalla pelle chiara e tesa con i peli radi. E poi alla sua leggera calvizie. I capelli morbidi e castani che si miniaturizzavano facendo intravedere una chiazza più chiara sulla sommità della testa. Ripensò a lui che le ansimava addosso, che la baciava con foga selvaggia nonostante la sua aria sempre un po’ flemmatica. Come era potuto accadere non se lo spiegava, ma certe conclusioni assurde si possono capire solo dipanando la serie imprevista di avvenimenti che l’hanno precedute.
C’era stata quella lontana cena a marzo. Una decina di amici stretti, lei in tubino nero che aveva appena letto il libro di Savage e ne parlava con entusiasmo. Lui che era apparso tra gli altri, avvocati e dottori, come qualcosa di bizzarro, o quanto meno di anomalo, perché amico d’infanzia di qualcuno. Con un jeans liso, in ritardo come si sarebbe accorta faceva sempre, di certo per poter dire, scusate le mani vuote ma ero di fretta e non ho avuto tempo!
Bassino, un po’ tarchiato, timido con lei e un po’ riverente, la guardava come fosse una dea mentre parlava del libro che aveva appena letto. Lei ci aveva riso su, e non l’aveva considerato più di tanto. In seguito avevano scoperto che abitavano vicino. Poi era arrivata quella febbre assurda, che per quasi tre settimane l’aveva isolata dal mondo, relegandola per la maggior parte del tempo in uno stato confusionale. All’inizio era stato un momento di debolezza, aveva risposto ad alcuni suoi messaggi, non più che con dei monosillabi date le sue condizioni, e lui si era offerto di passare a trovarla, magari per farle una minestrina. Lo stordimento l’aveva fatta cedere e Marco si era materializzato nel suo nuovo appartamento. Dal momento che in quel periodo era disoccupato e aveva molto tempo libero, le aveva fatto compagnia in quelle lunghe giornate con la scusa di prepararle un tè o di portarle la spesa.
Sapeva di essere stata una specie di ossessione per lui, di averlo colpito dalla prima sera, forse per via di quello stupido libro che le era piaciuto, e di averlo rapito con i suoi silenzi durante la febbre, con le sue espressioni trasognate e quel languore tipico delle lunghe malattie. Lo aveva visto vegliarla parlando di politica, di poesia e di arte. Cose che lei neanche ascoltava, ma che la incantavano per il tono di voce che usava, pacato e rassicurante.
Si alzò dal letto e passando davanti allo specchio si diede uno sguardo. Era proprio bella, al bando la falsa modestia! E il suo appartamento era bello rincarò, anche perché le era costato una fortuna! E il suo lavoro era un bel lavoro, ottenuto dopo anni di studio e fior fiori di master! Poteva scegliersi in pratica qualsiasi partito! E invece cosa faceva, stava lì a perdere il sonno e l’appetito per un rospo disoccupato, un perdente!
Eppure non poteva farne a meno, lo capì chiaramente quella mattina, era con le spalle al muro!
Verso le dieci infatti lo chiamò, poco prima di uscire. Ma Marco non le rispose. E lo immaginò, con il sangue che le ribolliva, sudaticcio, molle, ancora addormentato nel suo lettino adolescenziale, con la madre che lo ospitava grassa e flaccida in giro per casa, in una casa popolare, sempre puzzolente di cucina, dai mobili anni sessanta che sapevano di stantio, con un piccolo balcone strapieno di piante ammassate che lui giudicava il suo ‘angolo di pace’, una cosa ridicola se non fosse che le faceva tenerezza.
Lo odiò con tutte le sue forze, l’avrebbe soffocato con un cuscino mentre ronfava su quel ridicolo lettino circondato da pareti grigie e mangiate dalla muffa, su cui si appoggiavano centinai di libri che nella sua vita inconcludente aveva tutto il tempo di leggere!
Ma perché non riusciva a farle davvero schifo? Perché quegli occhi chiari e intelligenti le mancavano così tanto? Perché le mancava il respiro se pensava che non l’avrebbe più visto guardarla adorante come aveva fatto per settimane, prima che iniziasse a lanciarle degli sguardi di traverso, duri e distaccati?
Finita la febbre avevano preso a frequentarsi in comitiva. E proprio quando lei aveva cercato sempre più insistentemente le sue attenzioni, nonostante se ne vergognasse e lo facesse di nascosto (sapeva che le sue amiche lo trovavano ridicolo oltre che repellente), lui si era via via distaccato, e più lei tornava al suo solito pragmatismo, più lui sembrava sfuggirle. E ogni tanto accadeva che le arrivasse come una frecciata uno dei suoi sguardi penetranti. Sembrava giudicare qualsiasi cosa dicesse!
Elena arrivò in spiaggia verso le undici di mattina, già spossata, e trovò lì le sue amiche. Decise di rilassarsi prendendo un po’ di sole, ma stesa sul lettino si sentiva elettrica. Non ne avrebbe mai fatto parola con loro. Sarebbero rimaste scioccate, e non avrebbero compreso l’enorme estensione sotterranea delle radici che quel sentimento aveva piantato, come un’erbaccia testarda e prolifera.
Ma il nervosismo era epidermico. Urlò quasi nel controbattere a Bea che con la sua voce stridula da bambina scema sparava opinioni a cazzo, cosa che faceva spesso e per la quale stentava a sopportarla, ma che mai come quella mattina le aveva dato fastidio. Avrebbe strillato per il cicaleccio delle sue amiche, per il caldo, per la brezza che ogni tanto alzava la sabbia che le si incollava addosso.
Ad un tratto si alzò snervata e prese il telefono. Lo chiamò nuovamente. Nulla. Poi di nuovo. Nulla.
Quindi altre due, tre, quattro volte. Al decimo tentativo andò fuori di sé, lo vide ridacchiare all’idea di ignorarla. Le salì il sangue al cervello. Le lacrime le arrivarono agli occhi e fece una gran fatica a ricacciarle giù per l’orgoglio. Il suo disprezzo per quell’uomo le rendeva inaccettabile la presa di coscienza che era seguita a quella lunga nottata insonne, e cioè che lei lo amava e lui no! Quasi sgranò i denti nell’ammettere che si era innamorata di un perfetto fallito, il quale a sua volta si era innamorato di lei per un lato del suo carattere che aveva equivocato, e che ora passava il tempo a disprezzarla e ad ignorarla mentre lei, nel bene e nel male, non ne poteva più fare a meno, e per questo si odiava!
Si levò dal lettino furente, si rivestì e salutò con un sorriso tirato le sue amiche, quindi si diresse con determinazione alla macchina. E si decise. Aveva finto distacco e superiorità finché era stato umanamente possibile, per paura del ridicolo. Ora sentì una grande liberazione dentro di sé e decise di scoprire le carte!
Dopo un quarto d’ora, sudata e con il volto teso, si trovò ad attaccare il dito al campanello dell’appartamento di Marco. La voce sguaiata e biascicante della madre chiese chi fosse. A lei si rialzò lo stomaco all’idea di dover parlare con quella donna sciatta e sempre sudata, nonostante ciò le chiese di Marco e la donna le disse che si era appena svegliato al che Elena tagliò corto con – salgo!
Aveva un’espressione distaccata e la guardava non fingendo neanche curiosità per le motivazioni che l’avevano spinta fin lì, fremente e sudata. Dopo essersi vestito con calma, nella sua cameretta che puzzava di polvere nel disordine debordante, si sedette sul letto e le disse, cercando di trovare le parole più giuste possibili, che quello che c’era stato tra di loro era qualcosa che non poteva funzionare, perché loro due erano terribilmente diversi, e la guardò serio, anche un po’ dispiaciuto, cosa che mandò fuori di testa Elena. Al che lei se ne uscì con una risata isterica e disse che certo che erano diversi, bastava guardarsi intorno in quel buco maleodorante di fritto già alle dieci del mattino per capirlo! e lo fece sventolando il braccio sinistro con il suo orologio Bulgari.
Era stato lui ad insinuarsi nella sua vita e doveva ritenersi miracolato che una come lei fosse lì!
Proprio con lui! A quelle parole Marco scattò su, la prese con forza per le braccia e la fece cadere sul letto e in men che non si dica le fu sopra.
Lucien Freud

Fecero l’amore in modo selvaggio.
Quando lui si staccò, dopo averci messo una foga che Elena conosceva bene e di cui era diventata totalmente dipendente, si alzò dal letto con aria seria e determinata, e le disse di avere un impegno importante.
Elena non riuscì a stargli dietro e lui dopo essere andato in bagno sgattaiolò oltre il portone di casa. Lei uscì dalla stanza accaldata e in disordine cercando di non farsi vedere dalla mamma di Marco, che si trascinava in balcone con una scopa. Tornò a casa per farsi una doccia, mortificata, schifata dall’ambiente di cui si sentiva ancora l’odore addosso, eppure con un solo pensiero fisso in testa. Quando sarebbe successo ancora, quando avrebbe potuto baciarlo di nuovo e sentirlo sudato addosso a sé nonostante lo disprezzasse tanto!
Passarono due settimane di nulla da quella mattina, di silenzio ostinato e ripetuto, di indifferenza totale. Ed Elena passò le due settimane più frustranti ed asteniche della sua vita. Soffriva come un animale e soffriva ancora di più nel pensare a cosa o meglio a chi scatenava quella sofferenza.
Provava una profonda vergogna per i propri sentimenti e cercò di nascondere a tutti l’avvilente consapevolezza che aveva maturato, nonostante qualcuno sembrasse aver captato qualcosa, tanto che persino Bea, da oca qual era, le fece una battuta velenosa sul suo nervosismo che sembrava combaciare con l’assenza dell’orso Yoghi…come si divertiva a chiamare Marco.
Ma un giorno quel silenzio le divenne totalmente insopportabile e decise di braccarlo. Così si ritrovò un venerdì sera a passare sotto il suo condominio e, vedendo la luce della sua camera accesa, ad inchiodare, parcheggiando alla bella e meglio, ad attaccarsi al campanello e a chiedere alla madre di aprirle –era un’amica di Marco ed era urgente! A prendere l’ascensore fremendo e ad uscirne di corsa, per poi fiondarsi verso il portone quasi travolgendo la molle signora Spaccasassi. A sorpassarla ignorando il suo tanfo di sudore per arrivare alla porta della cameretta e a spalancarla senza neanche bussare.
Se era finita doveva dirglielo guardandola negli occhi!
E lo vide. Il suo segreto, l’uomo di cui si era tanto vergognata era lì, sudato e ansante. Ridicolo, con le chiappe pelose e lucide sopra due cosce aperte e abbronzate. Due cosce levigate che riconobbe al volo. E da sotto la sua faccia ansante che se la rideva, vide gli occhi sgranati di Bea che la fissavano, sorpresi ma sottilmente soddisfatti, anche lei sull’orlo di farsi una grassa risata.